Cos’è la resistenza?
È un’azione di difesa contro il nemico, è il diritto di opporsi a un attentato ai propri diritti fondamentali.
Ma dove sta il confine tra sottrarsi dignitosamente a regole inaccettabili e rinunciare a vivere, a cambiare il sistema prendendovi parte?
Queste le domande che mi sono sorte rileggendo Bartleby lo scrivano di Herman Melville.
Bartleby è un giovane scrivano che un giorno risponde a un annuncio di lavoro di un avvocato di Wall Street, nel cui studio già lavorano tre impiegati.
L’entrata in scena di Bartleby è subito emblematica. “Un giovane immobile. Ancora adesso posso rivedere quella figura, così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine. Era Bartleby”.
Bartleby è un giovane tranquillo, pacato, quasi trasparente, che eppure occupa uno spazio sempre più grande nella vita dell’avvocato. I primi giorni inizia a lavorare con solerzia, senza mai fare pause, senza concedersi distrazioni, diligente e silenzioso. Poi arriva il momento in cui, alla richiesta di svolgere un compito diverso, senza neppur alzarsi dalla sedia, risponde “preferirei di no”.
La sua risposta sorprende l’avvocato, ma non suscita irritazione tanto è posta con dolcezza.
La stessa risposta però si ripete nei giorni, a ogni ulteriore richiesta, muovendo stupore e indignazione negli altri impiegati. Il fatto è questo: la fermezza pacata di Bartleby, che a ogni domanda risponde un sommesso “preferirei di no” smuove mille reazioni, dalla compassione alla rabbia, dalla gelosia alla violenza, dalla pietà al disorientamento. Solo lui resta immobile.
Immobile al suo tavolo a lavorare sempre meno, a nutrirsi di pochi biscotti allo zenzero, a guardare il muro di fronte nelle pause.
Bartleby resta calmo, non alza mai la voce, non reagisce mai. Così mesto da non poter suscitare nell’avvocato collera o azioni forti. Così miserabile da far pena e da indurre a essere aiutato.
Arriva a non lavorare più. Addirittura si scopre che dorme e mangia nello studio in cui lavora, dove si chiude a chiave la sera. Non ha un altro posto dove andare, non ha un passato né una vita. O almeno, preferirebbe non parlarne. Fino a che l’avvocato è costretto a chiedergli di andarsene, a trovare un modo ragionevole e delicato di cacciarlo. Bartleby non si muove.
L’unica soluzione è cambiare ufficio e lasciarlo lì. Ma l’avvocato non se ne libererà: sarà costretto – dalla sua coscienza e dai nuovi inquilini, che lo ritengono responsabile di quella figura che si rifiuta di fare alcunché – ad accompagnarlo fino all’ultimo dei suoi giorni.
Bartleby non è un furbo, non ha secondi fini. Semplicemente rivendica il proprio diritto a “preferire di no”.
È come una figura bidimensionale, senza passato, senza desideri, senza prospettive. Personaggio simbolico di un’antivolontà nietzschiana ma anche emblema di una resistenza alle regole della società, sempre fedele a sé stesso e alla propria volontà di dire no. Alle regole del lavoro, della proprietà, della socievolezza. Bartleby è un essere umano innocuo, non impone, non reca danno, semplicemente si sottrae. Ai rapporti con i colleghi, progressivamente a tutti i lavori, alla richiesta di andarsene, ad accettare aiuto e infine anche a mangiare. Muore perché dice di no a tutto, alla fine anche alla vita.
Il suo mesto sottrarsi – spiazzante e di una potenza inaudita – suscita negli altri collera e scorrettezza. E la sua pacatezza finisce per alimentare dubbi sulle più salde convinzioni.
Siamo capaci di sottrarci a ciò che non ci appartiene? A quale prezzo? Fino a che punto è giusto essere coerenti? Cosa è ragionevole? Fino a che punto si può essere fedeli a sé stessi senza recar danno?
Da che parte sta la ragione, da che parte sta la giustizia?
Non è curioso che un individuo così immobile agiti così tante domande?
a cura di Elisa Zuri
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