Volevo imbattermi in un bel libro prima della fine di gennaio. Un mese segnato, in piena pandemia, dal desiderio di poter uscire di casa, di rivedere gli amici, di ampliare gli orizzonti della vista e del cuore, di tornare alla libertà di progettare. A volte la sensazione di isolamento è stata così forte, da farmi sentire la realtà quotidiana consumata e sterile. Fino a farmi perdere la lucidità. Poi sono uscita di casa, ho fatto una passeggiata, ho incontrato qualcuno e mi sono detta che tutto stava andando bene.
Senza gli altri che ci facciano da specchio, non esistiamo, non possiamo evolverci.
È stato in uno di questi incontri con gli amici di Tempo Nomade che è spuntato Utopie Eterotopie di Michel Foucault, il libro che accompagnerà la camminata del 27 febbraio prossimo: La città altrove.
Si tratta di due conferenze radiofoniche tenute da Foucault nel 1966. Letture brevi che spalancano universi, come avvicinare l’occhio a un caleidoscopio.
La prima, Le eterotopie, parla di luoghi altri, “assolutamente differenti”, contro-spazi inventati, come quelli dei bambini che, giocando, trasformano il letto dei genitori in una nave corsara. Luoghi immaginari per soddisfare il desiderio di altrove, riempire i vuoti del cuore e riscattare miserie. Eppure – anche se solitamente sono “paesi senza luogo e storie senza cronologia” – a volte le utopie danno forma a luoghi reali: utopie localizzate che Foucault chiama eterotopie. Così sono nati i cimiteri, i teatri, le prigioni, i giardini, i manicomi e le caserme. luoghi in cui compensare, purificare o cancellare la vita quotidiana.
Ogni società ha creato le sue eterotopie e ne ha modificate o eliminate di precedenti. Quello che le accomuna è la giustapposizione in un luogo reale di elementi apparentemente incompatibili, l’essere accessi a un’esperienza del tempo altra, a un’etero-cronia. Così nei cimiteri si cerca di rendere eterni i mortali mentre nei musei e nelle biblioteche si ambisce a rendere la cultura fruibile in ogni tempo.
La seconda conferenza di Foucault è intitolata Il corpo utopico e tratta della nostra esperienza del corpo, che, in prima istanza, appare come il contrario esatto dell’utopia. Il corpo è il luogo a cui siamo inchiodati, che percepiamo come limite, se non come condanna senza appello. Probabilmente è per questo che abbiamo immaginato l’incorporeità di certi eroi delle fiabe, l’immutabilità della mummia nel tempo, il mito dell’anima separata dal corpo, da cui può sempre fuggire.
Eppure il corpo non si riduce affatto a ciò che è visibile. Possiede al suo interno luoghi profondi, ostinati, oscuri, è spazio di movimenti e vita imponderabile, si fa attraversare dalle nostre intenzioni. Storicamente maschere, tatuaggi e trucchi sono strumenti far entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili, per dare espressione a qualcosa che resta nascosto e per custodirne il significato unico. Il corpo non è riducibile a un insieme di pezzi e ossa, è luogo di altri luoghi, legato a tutti gli altrove del mondo, è una vera e propria eterotopia.
Alzo la testa dal libro e mi dico che il corpo è limite e porta. Come tutte le eterotopie, che liberano l’immaginazione e rivelano la natura illusoria degli spazi “normali”, il corpo è una lente anarchica: cos’è davvero bello? Dov’è la vera libertà?
Foto di Christiane Désir
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