Quanto è pericolosa l’acquisizione della conoscenza e quanto è più felice l’uomo che crede che la sua città natale sia il mondo, di colui che aspira ad essere più grande di quanto la sua natura gli consenta.
Mary Shelley
Perché sono venuto al mondo? Cosa sono chiamato a fare? Cosa mi dà davvero gioia?
E’ lungo il percorso per conoscersi, per capire cosa ci rende felici. E lungo questo percorso, la domanda che più spesso capita di farsi è “cosa posso fare per essere la mia versione migliore, per sentirmi vivo, per lasciare un segno?”.
Farsi questa domanda equivale ad addentrarsi nei territori della passione, quel sentimento che accende, ci fa ardere e ci trascina in zone sconosciute di noi stessi, spesso oltre i nostri limiti.
La passione ci porta in una zona di limite, in cui sentiamo che possiamo essere altro e di più, cambiare e rendere l’impossibile possibile: è quello che ognuno di noi desidera. E’ il territorio dei sogni, il regno della libertà, qualcosa che si sfiora, che anche per un piccolo istante ci dà la conferma di essere al posto giusto, di poter realizzare quello che siamo.
La passione alimenta tutto ciò che ci muove, le relazioni, l’impegno civico, le scelte politiche, l’arte, l’ambizione, ci rende fertili e ci fa realizzare le cose più belle della vita, quelle che le danno un senso.
Ma la passione ha una natura ambivalente e, facendoci trascendere noi stessi, è pericolosa. Possiamo rispettarla nella sua connessione con il sacro, celebrarla con un timore reverenziale, oppure pensare di dominarla, di usarla. E allora rischiamo di perderci. Di uscirne massacrati.
Perché la vita che brucia attraverso la passione non si lascia circoscrivere. Né in una carriera, che può rendere schiavi di un delirio di sterile egocentrismo, né in una passione amorosa, che può mutare, non evolvere e diventare una prigione, né in un sogno, che può accecare e mortificare la realtà.
La passione è un’ebbrezza potente che rappresenta anche la via per la follia, per la perdita del confine.
Mi viene in mente un grande classico, il romanzo gotico “Frankenstein” di Mary Shelley. Il Dott. Frankenstein perde la madre tanto amata quando è ancora un bambino ed è il desiderio di averla ancora accanto a sé e di combattere la morte a guidarlo negli studi di medicina e nella ricerca, dove senza dubbio ottiene risultati straordinari. La sua vocazione è talmente forte da trascinarlo sempre più lontano dagli affetti presenti, dalla moglie, dal figlio, per coltivare un sogno di cura che diventa a poco a poco delirio di onnipotenza. Il dottor Frankenstein vuole creare la vita, un uomo dotato di salute perfetta che non può morire ed in parte ci riesce, ma il risultato è mostruoso e gli si ritorce contro, perché l’uomo non è Dio.
La vita non è un ospite delicato. La vita ci penetra, ci sconquassa, ci travolge in modo potente, inaspettato. Quello che possiamo osare, capire o dominare con la razionalità è poca cosa.
Non si controlla niente. Ci si può solo disporre a delle intuizioni, lasciare che la vita si dispieghi attraverso di noi, gioirne, stare a guardare, accettarla. Ogni altra pretesa purtroppo genera mostri e aberrazioni.
Gli antichi ben lo sapevano. Hanno inventato i miti, per mettersi in guardia da cosa può succedere quando si perde il senso del limite ed i riti, per concedersi di oltrepassarlo e salvarsi.
L’uomo ha la memoria corta. E in questi tempi di grande confusione, forse, io credo, è nei gesti piccoli e nelle voci pacate che si può ritrovare la misura della vita che riesce a scorrere.