Non è rimasto quasi niente in questi anni. La gioia degli incontri, la certezza degli appuntamenti sociali e culturali. La stabilità delle posizioni lavorative acquisite, le pratiche di benessere scoperte per prevenire o curare le nostre debolezze. Tutto è saltato, in uno stato di precarietà di salute, emotiva e lavorativa che ci ha reso fragili, impauriti, arrabbiati.
Quante volte ci siamo fermati a dire, ora basta, più di così non reggo, non è possibile?
Quante volte abbiamo pensato voglio tornare indietro, rivoglio la mia vita?
Ognuno dal suo percorso, ognuno con le sue personali difficoltà, ognuno dal suo punto di rottura.
Ci siamo sentiti arresi, a raschiare il fondo delle energie, a cercare le risorse per risollevarci, a fissare le cose importanti su cui concentrarci.
Abbiamo invocato la normalità, una stabilità a cui aggrapparci. Eppure, mai come in questi anni è stato chiaro che niente è certo, che dobbiamo abituarci alla precarietà, a vivere il presente.
C’è un libro per bambini, Le cose che passano di Beatrice Alemagna, dedicato a chi pensa che tutto se ne vada sempre in fumo. Certo, la pioggia finisce, le piccole ferite spariscono, le lacrime si asciugano, le foglie cadono, come i capelli e i denti da latte. Anche la polvere, che pure torna sempre, sembra sparire. Tutto prima o poi passa, trascorre o cambia, nel bene e nel male. Ma c’è una cosa che invece non se ne va. E non se ne andrà mai. È il calore di un abbraccio, la forza e il senso delle relazioni. E poi forse la certezza che tutto passa, anche ciò che è brutto e pesante, può darci serenità e aiutarci a trovare un centro. A scegliere dove vogliamo stare.
Già, dove vogliamo stare, come si chiede la protagonista di Resto qui, romanzo di Marco Balzano che offre un’appassionante riflessione sulla difesa della propria stabilità.
Ambientato a Curon nella Val Venosta del Sudtirolo, Resto qui racconta la storia di Trina, che fa la maestra e vive col marito e i due figli in una fattoria. Siamo in un paese di montagna dove tutti si conoscono, si aiutano, parlano tedesco e conducono una vita tranquilla, scandita dal ritmo delle stagioni, dai tempi delle vacche e della lavorazione del legno.
Fino all’avvento del fascismo e alle nuove ordinanze che, affisse alla porta della chiesa, vengono a stravolgere le loro esistenze. Prima il divieto di parlare tedesco e la discriminazione nelle scuole, poi l’arrivo delle camicie nere, poi la guerra. E soprattutto la decisione di Mussolini di costruire nella loro vallata una diga, che sommergerà le case e la chiesa, che porterà risorse per l’economia del paese, un sacrificio che ben vale lo spostare qualche casa di montagna. Eppure l’arrivo del cantiere non trova il paese solidale, che invece si spacca tra i pro e i contro, con la rabbia e la ferocia di chi si sente in pericolo e vede nell’altro la causa dei propri mali. I contadini perdono le loro terre, gli animali. Qualcuno si lascia morire, perché quando la vita non la si riconosce più, quando non si può più essere quel che si vuole, la stanchezza prevale su tutto.
Nella famiglia di Trina cresce la rabbia, ma una rabbia indebolita dal tanto lavoro da fare, dalla fatica, più simile alla malinconia, che non esplode mai. Uno dopo l’altro, Trina perde anche i figli. La figlia scompare in Germania con gli zii, che come molti altri, vedono nell’ascesa del nazismo una tutela dalle politiche di Mussolini. Il figlio si arruola nelle camicie nere, le stesse che fucileranno i partigiani, tra i quali milita il padre. Trina convive con le ferite, con l’assenza di notizie e con la perdita dell’identità. Le viene proibito di fare la maestra, non può più essere madre, teme che l’opposizione alla diga possa costituire un pericolo anche per i propri genitori. Lei e il marito fuggono sulle montagne e resistono. Resistono al regime, resistono a chi li vuole espropriare, resistono alla fame, resistono all’odio.
Nella loro resistenza non c’è ideologia, c’è l’amore per la propria terra, per la gente, per cosa hanno coltivato. C’è il desiderio di riabbracciare la figlia e la paura di desiderarlo. C’è la fragilità di restare attaccati alla bellezza dei ricordi e il bisogno di lasciare andare, per conservare la forza di resistere. C’è la consapevolezza che la forza sta nel procedere passo dopo passo nella difesa di quel che si ama, nel non dare troppo peso ai pensieri, nell’avere il coraggio di andare avanti.
Si chiude il libro con la serenità di un sapere antico. Che la stabilità non va cercata nelle cose che non cambiano, o in immagini ideali di come le cose dovrebbero essere. Le cose si trasformano e i pensieri non riescono a darne conto. I pensieri possono imprigionarci, legarci, renderci inermi. Ci vuole sempre un passo fuori dai pensieri, l’essere pronti ad accettare la realtà e a camminare in una direzione che dia un senso al nostro andare. “Forse l’unico modo di continuare a vivere – dice Trina – è farsi altro, non rassegnarsi a stare fermi. Certi giorni me ne pento, ma è tutta la vita che mi succede così. D’improvviso devo disfarmi delle cose. Bruciarle, strapparle, allontanarle da me. Credo sia la mia strada per non impazzire”.
La stabilità, quella di cui tanto abbiamo bisogno è dentro di noi. Restare sì, ma sulle proprie gambe, fedeli a sé stessi e a chi si ama. Ovunque si possa andare.
Se volete contattare Elisa Zuri, potete scriverle a elisa.zuri@gmail.com.