In questo momento in cui le iniziative si moltiplicano sul web, pensavamo di fare spazio al silenzio. Invece per la prima volta ospitiamo in questo blog un contributo esterno.
Lo riceviamo da Ketty Mannini e Michael Morzetta, bloccati in Georgia dalla pandemia da Covid19 durante un viaggio che dalla Toscana avrebbe dovuto portarli in Cina in bicicletta. Sono partiti a fine ottobre 2019. Hanno attraversato Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Grecia e Turchia fino a giungere in Georgia, dopo quasi 6000 chilometri. Impossibilitati a proseguire, hanno deciso di rientrare in Italia. Ma sono ancora là in attesa che parta un volo, senza la sicurezza di riuscire a farlo in tempi brevi.
Ketty e Michael sono entrambi Guide Ambientali Escursionistiche. Abbiamo seguito insieme il corso di formazione per GAE, dove per un anno intero abbiamo condiviso lezioni in aula ed escursioni. Come capita quando ci si trova a stretto contatto, ci si annusa e a volte ci si riconosce. Così loro sono diventati una coppia e noi, finito il corso, abbiamo mantenuto i contatti.
Gli abbiamo chiesto se, in questo momento di stop forzato, avevano voglia di condividere con noi qualche pensiero sul loro viaggio. E noi lo facciamo con voi.
Giuseppe Cocchi
NEL SUONO DEL VENTO
di Ketty Mannini e Michael Morzetta
Muoversi con l’armonia del ritmo del mondo.
Viaggiare.
Scegliere di farlo lentamente, in modo attento, silenzioso e consapevole.
Siamo partiti in bici da casa in pieno autunno, la nostra meta l’Oriente, come motore i nostri muscoli, come spinta, la sola forza di volontà.
Un viaggio da riconfermare ogni giorno, sotto ogni goccia di pioggia, dentro ogni maglia sudata che con l’inverno si trasforma in un’arma ghiacciata e affilata sulla pelle, davanti alla decisione che ogni sera si presenta sul luogo più sensato – nascosto ma non troppo isolato, accessibile ma non troppo comodo – per crearsi un rifugio per la notte.
Notti nelle quali tutti i sensi restano all’erta.
Notti in cui il sonno trova un corpo stanco per le fatiche del giorno, ma una mente che resta guardinga e sensibile a ogni piccolo rumore.
Una libertà che si riafferma con prepotenza nell’aria che ci accarezza la faccia nella velocità delle discese, nei raggi di sole che ci riscaldano la pelle, nel sentirsi ricchi delle poche cose che abbiamo perché sono tutto ciò che serve.
Tutto ciò che non c’è sarebbe peso inutile, peso che faticheremmo a portarci dietro, l’essenzialità diventa maestra nel quotidiano.
Una libertà che si esprime in ogni incontro con chi vive nei luoghi che attraversiamo, con chi ha per noi uno sguardo curioso, un sorriso sincero, una parola amica.
Con chi lungo questo itinerario in questi cinque mesi ci ha aperto con purezza e semplicità ammirevoli le porte delle proprie case, dei propri cuori.
Quando la differenza della lingua diventa il più bel pretesto per una comprensione ricca di gesti gentili e attenzioni spontanee.
L’ospitalità che abbiamo avuto la fortuna di incontrare è andata ben oltre le nostre aspettative, è diventata il vero motore di questo nostro andare, ha segnato in profondità la linea tra passare e soffermarsi.
Vedere e guardare.
Percepire e capire.
Ci siamo accorti allora dell’importanza dell’interazione sociale, quel sorriso che ci ha accolto ci ha aperto una finestra importante, non solo verso una doccia calda e un pasto preparato con amore, ma verso l’intimità di una casa a qualche migliaio di chilometri dalla tua, verso costumi, usanze, tradizioni, abitudini che altrimenti sarebbero rimaste celate.
Abitudini così naturali e così importanti da delineare identità per tanti aspetti simili alla nostra, per tanti altri lontane.
Nell’attraversare dieci Paesi, più volte ci siamo interrogati sul significato di una linea immaginaria, su quanto un confine segnato su carta possa influire su ideologie, preconcetti o stereotipi.
Durante questi mesi non abbiamo mai dato troppa importanza alla gioia che scaturiva nelle persone alla scoperta del nostro essere italiani.
Semplicemente associavamo la loro risposta felice a un pacchetto di gioia più completo nell’essere arrivati da lì con le bici.
Poi varchiamo un altro confine.
Qualcosa inizia a cambiare.
Alla naturale esternazione della nostra nazionalità si creano allarmismo e panico.
Giustificate misure precauzionali vengono prese, meno giustificati sguardi sospettosi ci vengono rivolti.
Ma è un confine, una dogana. Sappiamo che l’Italia già da un mese sta lottando con un nemico veloce e subdolo. Capiamo.
Andiamo avanti, con i cuori fiduciosi e aperti come questo viaggio ci ha insegnato.
Ma realizziamo in fretta, come una doccia ghiacciata, che la leggerezza che ci ha guidato finora si sgretola, al solo pronunciare la nostra nazionalità le porte ci vengono chiuse in faccia, veniamo allontanati ed emarginati.
Poco importa che non siamo a casa da quasi cinque mesi.
Non c’è tempo di spiegare.
Prima le distanze da ciò che potenzialmente è pericoloso.
Le maglie vengono tirate fin sopra il naso al nostro passaggio.
Qualcuno ci chiama con il nome del virus.
Iniziamo a dover mentire sulla nostra nazionalità per riuscire a interagire quel minimo necessario almeno all’acquisto di cibo.
Sappiamo da altri viaggiatori italiani che i controlli della polizia sono diventati continui, con conseguente controllo medico sanitario, solo perché siamo stranieri, o forse estranei.
Giriamo a testa bassa, timorosi e chiusi.
Per non stare sotto il peso degli sguardi ci isoliamo in campagna, aggrappandoci ancora al bisogno di credere che il viaggio non sia finito, soprattutto in questo modo.
Ma siamo sempre più consapevoli di non essere più una lieta curiosità ma un pericolo da evitare.
Lo sforzo più grande è quello di tenere il morale alto, lottando contro gli effetti più laterali ma non meno gravi che questo virus produce, oltre a quelli fisici.
Tutti i confini via terra sono ormai sbarrati.
All’interno del Paese, volatilizzate tutte le possibilità di fare esperienze.
È già una lotta riuscire a salire su un treno.
Una benedizione trovare qualcuno che ci affitti una stanza mentre aspettiamo.
Aspettiamo…